lunedì 8 marzo 2010

Rei

Rei.

Nella terra del Sol levante, questo termine designa una virtù fondamentale. Di solito esso viene tradotto con “etichetta”, “cortesia”, oppure con “saluto”, “riverenza”. Nel mondo delle arti marziali giapponesi (come vedremo in seguito) è conosciuto e praticato nell’ultimo significato.

Storicamente, il Rei arriva in Giappone - e si innesta sulle arti praticate nelle scuole sacerdotali e d’armi - dalla Cina, dove indica (con la pronuncia li) una delle cinque virtù confuciane assieme a jin, “benevolenza, umanità”, gi, “giustizia, correttezza”, chi, “saggezza, conoscenza” e shin, “lealtà, sincerità”.

In particolare, il li si propone come chiave di volta dell’intero agire umano: «Il fare confuciano si estrinseca attraverso l'osservanza dei riti (li), un complesso di norme che regolano i rapporti ed i comportamenti umani, indicando la strada giusta da seguire, in ogni occasione. Per ogni rapporto umano e sociale, per ogni circostanza, sono stabiliti dei riti. In particolare vengono prese in considerazione cinque relazioni sociali fondamentali alle quali, per analogia, possono essere ricondotte tutte le altre. Esse sono quelle tra principe e suddito, tra padre e figlio, tra fratello maggiore e fratello minore, tra marito e moglie e tra amico e amica . Non si tratta mai di un rapporto di parità: anche nella relazione tra amica ed amico si distingue tra quello più anziano e quello più giovane. Per ciascuna di queste relazioni furono codificate regole di comportamento rigide, limitative della libertà individuale.»

Appare evidente qui il tentativo di attivare il contatto con gli dei basandosi essenzialmente sulla perfezione formale dell’azione. In questo modo la tensione verso la perfezione si manifesta attraverso la ricerca del giusto movimento psico-fisico, frutto (ma anche causa) del corretto atteggiamento interiore.

Una tale ricerca della perfezione è assunta in pieno dal Giappone medievale in seno al codice cavalleresco (Bushido), tale quale si venne costituendo all’interno delle comunità di samurai nell’era Kamakura, alla fine del XII secolo.

Fig. 1

Fig. 2

Fig . 3

Fig. 4

Al di là della pronunzia differente, l’ideogramma di rei rimane identico sia in Cina, sia in Giappone; venendo ad esaminare l’ideogramma che lo rappresenta, esso (fig. 1) è costituito, a sinistra, dalla risultante di una doppia linea (fig. 2), che denota il cielo, innestata sul vertice di una triplice linea (fig. 3), a destra, da una specie di amo, che raffigura un germe; le tre linee verticali e parallele richiamano sia il numero tre (nel qual caso sono però orizzontali), sia il “trimundio” (il tribhuvana indù), o triplice locazione (nel senso del sinonimo triloka), come nel caso del termine “imperatore” (fig. 4)[11].

Ecco che dall’analisi iconografica dell’ideogramma si può passare alla sua sintesi semantica e iconologica: “il germe del(l’azione del) cielo sul trimundio”, ossia la potenzialità dell’azione ordinatrice di impronta celeste nel triplice ambito della manifestazione.

Ora la sintesi iconologica dell’ideogramma illustra in modo chiaro il principio dell’azione celeste sul cosmo, concepito come tripartito; e la manifestazione cosmica triforme costituisce un archetipo diffuso anche nelle altre tradizioni – indoeuropee o meno – e che accompagna, come abbiamo accennato sopra, lo stesso sviluppo della pietas romana. La diffusione di un tale archetipo è ad un tempo la chiave della sua fruibilità in seno a civiltà differenti, nonché garanzia di possibile comunicazione tra culture anche distanti, l’ordo nel quale

si può intessere una trama; a tal riguardo verranno ora tratteggiate alcune sue vestigia in differenti tradizioni.

Tracce dell’archetipo triforme.

Il significato di rei (il cinese li) sopra evidenziato prova indubbiamente un’origine sacrale del termine. Esso inoltre trova un curioso riscontro (nonché assonanza) nella radice arcaica indoeuropea ri a significare il “ritmo”, “andamento”, il “corso” universale (cfr. rita in Vedico, arta/asha in Avestico, orior, ritus e forse anche ordo in Latino).

Se l’universo manifestato è un “trimundio”, un tribhuvana (nel mondo indiano formato rispettivamente da svah/svarga, il cielo, bhuvah/antariksha, il mondo intermedio e bhur/bhumi, la terra), ossia se la manifestazione avviene secondo una triplice forma, ecco che anche il suo spiegamento deve implicitamente suggerirlo; significativamente, dalla radice ri si generano nella lingua vedica (progenitrice del Sanscrito) una serie di esiti indicativi, se esaminati da una tale prospettiva (schema 1), come vedremo di seguito:

- con il termine rita (un semplice participio passato della radice verbale ri, affine al Latino ritus) si intende “il corso della natura” o “ordine generale del cosmo”, “la legge divina” ovvero “il giusto culto da tributare agli dei”, “la retta condotta dell’uomo”, ciò che nella tradizione posteriore indiana (e in Sanscrito) sarà designato dal termine dharma.

Similmente, nella tradizione avestica del vicino Iran, il termine arta/asha sta ad indicare fondamentalmente l’ordine cosmico, la giustizia, simboleggiato poi nel Mazdeismo posteriore da Asha Vahishta, “l’Ordine o la Rettitudine Ottima”, uno dei sei Amesha Spenta. In questo caso è evidente nelle due tradizioni (vedica e avestica) la derivazione da un prototipo concettuale e linguistico comune.

- con un semplice cambio della vocale finale otteniamo la parola ritu che significa in origine “il tempo adatto ritualmente”, affine al greco kairòs, e passa poi a designare “periodo di tempo prestabilito”, “stagione” (significato con il quale è ancora adoperato nella lingua moderna indiana). Similmente, nello zoroastrismo si parla dei supremi “giudici”, ratu, considerati degli archetipi, la concezione dei quali permarrà addirittura nella filosofia islamica di Sohravardi e Avicenna. Essi derivano il loro nome dallo stesso termine indiano e costituiscono l'ordito del mondo: la sua contemplazione complessiva come “tutti-gli-dei” (vedico vishve devah) è detta di “tutti i Ratu (Vispe Ratavo) .

- dall’ampliamento della radice ri nella radice secondaria, rin, si forma il sostantivo rina (affine al Latino reus) che significa “mancanza”, “carenza”, “debito”.

Questo ultimo concetto risulta, se analizzato, altamente esplicativo dell’archetipo triforme che soggiace alla natura del cosmo: la condizione ontologica dell’uomo in India è contrassegnata da tre “debiti” contratti al momento della nascita, ossia il deva rina, “debito verso gli dei” (che il bravo bramino estingue mediante l’effettuazione dei riti previsti), il muni rina, “debito nei confronti dei maestri” (che si estingue grazie all’apprendimento dei Veda) e il pita rina, “debito verso il padre” (che può essere rimesso mediante la celebrazione dei riti funebri).

I tre termini qui presentati sono tutti indiscutibilmente legati all’idea di un kosmos, di un ordine (rita), che procede (ri) nel tempo secondo un ritmo (ritu), e a questo triplice ordine l’uomo soggiace (rina) in modo anch’esso triplice (deva rina, muni rina e pita rina).

Della triplice modalità che assume la manifestazione e l’operato dell’essere umano per favorire il contatto con gli dei – prova ne sia per esempio il significato etimologico del termine cultura – si hanno evidenze nelle differenti tradizioni.

Nella tradizione mazdaica, l’Arda Viraz Namag (testo redatto tra il IX e il X secolo d.C.) cita testualmente (capp. 7-9) la dimora celeste paradisiaca suddivisa in tre sfere (denominate stellare, della luna e del sole) che attende i giusti appartenenti a una delle tre classi sociali nelle quali la società iranica (e indoeuropea) era tradizionalmente suddivisa.

Il coronamento dell’esistenza condotta rettamente - ossia secondo le norme dell’ordo universale - passa dunque, nella comunità, attraverso una triplice suddivisione delle funzioni sociali, così come già riconosciute da Dumézil.

Qualche secolo prima (II secolo d.C.), Plutarco, nella sua investigazione del fato, ne aveva descritto la sua essenza (ousìa) come “anima triplice del cosmo” (kosmou psychè trìke); le tre anime del cosmo vengono chiamate rispettivamente “stabile”, “nomade” e “fondata sulla terra”, mentre sempre triforme presenta la cosiddetta “provvidenza” (prònoia); essa si presenta rispettivamente come “dell’intelletto e della volontà di Dio” (theoù nòesis kai boùlesis), “degli dei secondari vaganti nel cielo” (deutéron theòn tòn kat’ourànon iònton ) e dei “demoni legati alla terra” (òsoi perì gèn dàimones tetagménoi).

Riflessi di una tale suddivisione triplice sono presenti anche nella cultura nipponica, sebbene in contesti specifici, quali quello del pegno divino nei confronti della casa imperiale nipponica, costituito dal triplice tesoro imperiale, e quello del culto dei defunti.

Riguardo il triplice tesoro imperiale (sanshu no shinki), ricordiamo che esso consiste di uno specchio (yata no kagami), una spada (kusa nagi no tachi) ed una collana (yasakani no magatama). Il possesso di questi tre oggetti addirittura “prova la legittimità dell’Imperatore”.

A proposito del culto degli antenati, come ci ricorda uno studioso giapponese «sono in uso tre specie di adorazione di Antenati: cioè, la adorazione del Primo Antenato Imperiale da parte del popolo, la adorazione del dio tutelare della località […] e la adorazione degli antenati di famiglia da parte dei membri della casa.»

Da questa breve rassegna, risulta chiaro che tracce dell’archetipo triforme si trovano diffuse in molte tradizioni; in tutte la triplice suddivisione comprende categorie analoghe (schema 2): 1. piano divino, principiale, stabile, causale; 2. piano intermedio, mobile, celeste, corrispondente alle autorità comunitarie; 3. piano ctonio, sostanziale, necessitato, collegato con gli avi individuali.

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