venerdì 1 febbraio 2013

NON HO TEMPO PER LAVORARE


DI ALESSIO BUZZELLI
odioilgolf.blogspot.it

Fare come Essere – Per essere qualcosa o qualcuno è necessario essere individuabile da qualcosa o qualcuno. Poter essere riconosciuto come individuo, quindi. Individuo inteso come realtà che non si può dividere, che non può essere divisa senza perdere la sua essenza, la sua effige, il suo carattere. Una particella indivisibile. Come tale, questo individuo deve mostrare un minimo grado di autonomia, deve poter definire in qualche modo se stesso e le proprie circostanze. In breve, essere un individuo è una sporca questione di senso.

Nella foto: Sisifo”, Tiziano, 1549, olio su tela, esposto al Museo del Prado, Madrid

Di far senso, anche. Persino di dover far senso. Faccenda assai complicata oggi, dico io. In questa sciocca post-post-modernità che è talmente post da divenire pre. La questione di cosa essere e di come essere è la vera questione per l’Uomo. Qui ed ora. Non fosse altro che negli ormai scomodi vagoni della Grande Locomotiva Occidentale l’identità individuale è cosa che sempre meno riguarda l’individuo. E’ come se piovesse dal cielo. Qualcuno la lascia cadere e tu prendi quella che ti tocca. Piovono pietre, ma pazienza. Sempre meglio che essere niente.

Bene, una di queste pietre identitarie –diciamo così - è oggi il lavoro. Nuovo (ma nemmeno tanto) Idolo, Totem dell’uomo moderno. Pervasivo, invasivo, persuasivo. Dovunque, comunque lavoro. Glorificato, denigrato, agognato. Lavoro. Unità di misura delle umane cose. Per campare devi lavorare, altro non si dà. Da secoli questo assunto viene ripetuto, fino a trasformarsi quasi in legge della natura. In legge della coscienza, in condizione a priori. Che si provi ad immaginare la propria vita senza lavoro. Impossibile. Sarebbe come immaginare uno spazio infinito, un tempo eterno, un lavoro fisso. Tanto è vero che si parla persino di un diritto al lavoro, quasi coincidesse con un più generale diritto alla vita. O, meglio, alla sopravvivenza. Paradosso? Mica tanto, se per la così detta società c’è una totale identità tra la funzione produttiva alla quale il singolo assolve e la propria identità, il proprio essere così e non altrimenti. Il principio di individuazione sembra ormai essere: tu sei quello che fai. La condizione e insieme la causa di questo processo è da ricercarsi nella struttura economica, politica e sociale del nostro tempo e del nostro spazio. Non è sempre stato così e non lo sarà sempre – ammesso che un sempre ci sarà ancora.

L’esistenza umana trasformata in produttività umana è parto malriuscito di quell’inspiegabile idea secondo la quale si ha diritto alla vita solo se si contribuisce con la propria fatica a far girare gli ingranaggi di una macchina abnorme, eterodiretta e votata all’accumulo di qualunque cosa esista. Ovverosia esisti se contribuisci al funzionamento di qualcosa che è talmente grande, talmente complesso e talmente forte da nascondersi alla comprensione dei più. Grandi segreti di un sistema, quello capitalista del nuovo millennio, che non sa morire perché non vuole. Ma l’agonia genera mostri, l’abbiamo imparato.

Il suicidato dal lavoro è l’ultimo orribile capolavoro di questa agonia che chiamano crisi sistemica per non spaventarci troppo. Questo accade quando perdere il lavoro significa perdere la propria identità. Tempo per essere, Tempo per fare – l’esistenza non si misura con il Tempo. L’esistenza è Tempo. Costituita da porzioni di Tempo e sottomessa alle regole del Tempo: per vivere ci vuole Tempo. Per essere, soprattutto, ci vuole Tempo. Dicevamo che l’individuo deve formarsi da sé, deve poter definire se stesso e, per ciò, possedere un certo grado di autonomia. Diversamente, si ha bisogno di qualcosa che ti dia forma, che ti informi. Ma in tal caso salta il concetto di individuo e subentra quello di protesi, copia, surrogato di un individualità altra.

Per essere individuo, dicevamo, c’è bisogno di tempo. Tempo per ragionare, desiderare, riflettere, sbagliare, scegliere, rinunciare, amare, odiare. Per autodeterminarsi, per essere se stessi. Sappiamo però che il Tempo individuale è un tempo finito, limitato, che si esaurisce. E sappiamo anche che l’unica cosa che l’uomo può fare con il Tempo è quello di sceglierne l’utilizzo. Entro i limiti del possibile, naturalmente. Ognuno può fare da sé un breve calcolo e scoprire quanto tempo l’uomo di oggi dedichi al lavoro. E, per sostenere la tesi che qui si prova ad accennare, basta davvero questo semplice calcolo. Se la quasi totalità degli attimi a disposizione di un uomo vengono occupati (spesso abusivamente) da un’occupazione lavorativa, ecco che di tempo per il resto non c’è n’è. Il resto è naturalmente tutto il resto: la costruzione della propria individualità. Se lavori pensi al lavoro, there is no alternative. Chiedetevi ora perché il Tempo non occupato dal lavoro si chiami tempo libero e non, che so, tempo divertente. La risposta è contenuta nella domanda. La definizione di libero prevede un termine di paragone implicito per essere sensata. E il secondo termine è qui quello di costretto. Se ne inferisce che l’altra specie di Tempo, quello lavorativo, sia un Tempo costretto, non libero. E dunque impersonale, divisibile, non-individuale. C’è della coerenza in tutto questo: noi non scegliamo di lavorare, noi dobbiamo lavorare.

L’idea che lavorare sia un libero atto della volontà è un’illusione. Il lavoro-dovere si è trasformato nella coscienza in lavoro-volere sino ad apparire come una legge immutabile del mondo, un’idea inconscia radicatasi in noi dopo secoli e secoli di abitudine. Di nuovo: se non hai tempo per diventare te stesso, sarai individuato per ciò che farai. Cioè per ciò che non sarai. Perché il lavoro, comprando Tempo, compra l’esistenza. Lo scopo: il grande assente – Niente ha uno scopo in se stesso. Nemmeno il lavoro. E’ l’essere umano in quanto essere teleologico che per vivere ha bisogno di cercare e trovare uno scopo, una finalità in tutto ciò lo riguarda. E, a dire il vero, l’uomo è sempre riuscito a trovare uno scopo. Spesso distorto, ingannevole, vano. Ma l’uomo, per sua fortuna, non è Dio. Può sbagliare. Epperò sembra che oggi questo animale giustificatore faccia una fatica del diavolo a trovare uno scopo al lavoro così come oggi è concepito e organizzato. Sono andati i bei tempi in cui lavorare voleva dire poter toccare con mano la propria sopravvivenza. Ancora più lontano è il tempo in cui lavorare significava poter esprimere la propria personalità, il proprio talento, la propria vocazione. Il “lavoro come opera” è morto.

Certo, oggi il lavoro è ancora legato alla sopravvivenza, d’accordo. Ma alla sopravvivenza di chi? Alla sopravvivenza di cosa? E’ del tutto evidente che oggi l’uomo non lavora più per la propria esistenza, intesa come esistenza individuale. Oggi il lavoratore sgobba per la propria esistenza commerciale, consumistica, edonistica. Si lavora per poter consumare, per poter soddisfare dei bisogni che sono per la maggior parte indotti. Si lavora per restare un ingranaggio efficiente tra altri infiniti ingranaggi senza i quali, dicono, l’essere umano perirebbe. Si lavora per nutrire quel Grande Individuo impersonale che chiamiamo società. Si lavora per tutti e per nessuno. In summa: si lavora per consumare, per poi lavorare di nuovo. Lavorare per lavorare. Il lavoro smette così di essere un mezzo – uno strumento - volto al raggiungimento di un qualche scopo per divenire scopo esso stesso. Scopo a se stesso. Stando così le cose, risulta impossibile rispondere alla fatale domanda “a che scopo?”. L’uomo moderno ha creato le condizioni tali per cui è avvenuto nel concetto di lavoro un avvitamento di scopi, tanto che oggi non se ne trova nessuno.

Che senso ha, ad esempio, chiedere le “ferie”, ovvero elemosinare uno sputo del mio tempo a qualcuno che misteriosamente è riuscito a comprarlo? Dov’è lo scopo in tutto ciò?

Infine, ma non alla fine - Tutto questo per dire che l’uomo deve riformare il concetto di lavoro per giungere ad una esistenza riformata. Prima però deve tornare ad essere un individuum intero e liberarsi dalla sua attuale condizione di organismo scisso - di dividuum – tra quello che deve essere e quello che vuole essere. Trovare un nuovo “a che scopo?”.

Ecco di cosa ha bisogno oggi l’umanità. Non “liberare l’uomo dal lavoro” ma liberare il lavoro dall’uomo. Da questo uomo.

Alessio Buzzelli
Fonte: http://odioilgolf.blogspot.it
Link: http://odioilgolf.blogspot.it/2012/07/non-ho-tempo-di-lavorare.html
5.01.2013